AVELLINO – La prematura e dolorosa scomparsa di Antonio Di Nunno ha colpito profondamente il cuore della città. La perdita di quest’uomo a suo modo unico, dalla forte e rilevata personalità, ha lasciato un vuoto che non potrà essere colmato. L’unanime, commosso e spontaneo cordoglio che ne ha caratterizzato le esequie, come da tempo non avveniva, costituisce esso stesso un fatto sicuramente straordinario. E questo proprio a dispetto del fatto che Di Nunno non rappresentasse nessun potere, presente o passato, a cui spesso si è per forza di cose costretti a rendere un omaggio sia pure solo estrinseco e formale anche post mortem. No, il compianto popolare non era rivolto a un uomo di potere, ma anzi proprio a un uomo che si era sempre opposto al potere, e specie al lato oscuro del potere, senza mai piegarsi e inchinarsi ad esso. Questa sua natura la gente comune lo ha sempre avvertito in lui, e proprio per questo lo ha rispettato e amato.
Il ricordo di questo piccolo-grande uomo – tutto nervi, intelligenza, vivacità, generosità, idealismo – non può però esaurirsi solo nella rievocazione, inevitabilmente commossa e nostalgica, di quanti lo hanno conosciuto, stimato e amato, ma richiede almeno un principio di storicizzazione della sua figura e della sua opera. Si tratta, infatti, non solo di un atto dovuto alla sua memoria, ma anche, in un certo senso, della “biografia” di una città e di una generazione, con i suoi successi, i suoi sogni e i suoi fallimenti.
***
La storia di Di Nunno viene da un’epoca che sembra ormai lontana e rimossa, che risale alla fine degli anni Sessanta e ai primi Settanta del ‘900. Era, questo, un periodo contrassegnato dalla rottura traumatica della crisi di schemi e valori del ’68. Mentre una larga parte del mondo giovanile cattolico si spostava sulle linee della cosiddetta “contestazione”, un’altra parte scelse la via, sicuramente più ardua e meno gratificante, di una posizione critica ma costruttiva, basata sulla ricerca di un rinnovamento della politica che non fosse fatta solo di utopie e di carattere generazionale, ma di valori e programmi. Fu questa la linea espressa e rappresentata da un gruppo sicuramente minoritario ma assai vivace, che si riconobbe nelle esperienze di Quaderni irpini, de La voce dell'Irpinia e infine di Radio Irpinia; tutte “avventure” che ebbero Antonio Di Nunno come protagonista, a partire dalla candidatura, insieme a Michele Zappella, alle comunali del 1970; fu una generosa battaglia pioneristica, segnata da una sconfitta, ma da tutti i punti di vista quanto mai onorevole. Questa linea era destinata ad esaurirsi nel decennio successivo per l'affermarsi nella Dc di logiche di potere correntizio e personalistico che nulla avevano a che vedere con l'autenticità e il disinteresse dell'impegno politico.
L’abbandono dell’impegno politico attivo a beneficio di quello giornalistico e la rinuncia, nel 1980, alla ricandidatura al Consiglio comunale di Avellino, dove era stato eletto con un brillante risultato nel 1975 insieme a Enzo Venezia, segnarono questa svolta, che non era solo personale e biografica, ma generazionale e politica.
E quando improvvisamente, nel 1995, egli fu designato come candidato a sindaco, tale scelta apparve del tutto incongrua nel contesto generale, sino ad apparire quasi come un incidente di percorso del Ppi. Si trattava invece del riemergere, quasi come un fiume carsico, della continuità e della coerenza di un discorso politico e amministrativo avviato, in un contesto assai diverso, più di vent’anni prima. A monte di questo evento si collocava il trauma della sconfitta epocale della vecchia Dc, appena trasformatasi in Ppi, alle elezioni politiche del 27 marzo 1994. Dopo quella data, che segnò una svolta nella politica italiana, il vecchio sistema di potere ne risultò irrimediabilmente scosso, non solo a livello nazionale, ma persino nell’ambito locale, dove pure esso sembrava ancora assai forte e radicato.
Di qui nacquero la candidatura a sindaco di Avellino di Antonio Di Nunno e il quasi completo rinnovamento della lista comunale. Su Di Nunno gravava tuttavia la strumentale ipoteca convergentemente lanciata dagli avversari come dallo stesso Ppi: quella cioè di rappresentare la continuità con la vecchia classe dirigente. Quanto ciò fosse falso lo stava a dimostrare tutta la storia personale e ideale dello stesso Di Nunno. Alla sfiducia della gente, il candidato-sindaco seppe inoltre efficacemente rispondere con un programma di rinnovamento radicale e di assoluta indipendenza da uomini e cose del passato; alla vecchia maledizione della politica, quella di voler apporre etichette e imporre ghettizzazioni, rispose lanciando una sfida concreta su problemi e programmi concreti.
In effetti, la politica aveva da tempo divorziato dalla gente, dai problemi reali, dal buon senso, e soprattutto dalla cultura e dalla tensione morale, per ridursi a mera amministrazione o, peggio, a pura e semplice occupazione del potere. E proprio attraverso la sovrapposizione di successive irrazionalità messe in atto dalla politica che si era creata una sensazione individuale e collettiva di scoramento, di frustrazione, di inutilità di tutto, che si concretizzava nel rifiuto di ogni prospettiva di rinnovamento e di ripresa. È questo il terreno che prepara le catastrofi, che possono essere provocate da una causa qualsiasi ed assumere le dimensioni più impensate, innescando un meccanismo di autolesione e autodistruzione che costringe a ricominciare tutto daccapo.
Di Nunno intendeva invece amministrare la città innovando senza rinnegare, poiché non erano le grandi scelte ideali del passato da rinnegare, ma piuttosto l'interpretazione distorta e l'applicazione perversa che ne era stata fatta negli ultimi anni.
Ma comunque restava la sfida, sul piano della “politica politicante”, e si giocava su due versanti. Il primo – e tutto sommato più semplice – era quello del confronto serrato con la composita ed eterogenea coalizione delle destre, e il secondo – assai più complesso ed ambiguo – era quello interno al Ppi. Se Di Nunno vinceva, infatti, i vecchi “padri-padrone” avrebbero inevitabilmente tentato di affermare di aver visto giusto ancora una volta, traendone argomento per confermare e rafforzare la loro sempre più declinante ed appannata leadership. Se Di Nunno fosse stato sconfitto, invece, avrebbero potuto sostenere che il rinnovamento era fallito, e continuare indisturbati nelle vecchie pratiche.
La soluzione del problema passò raccogliendo in positivo la sfida di quelle difficilissime elezioni amministrative, respingendo con chiarezza i condizionamenti e le ipoteche del passato e guardando con fede all'avvenire. La candidatura di Antonio Di Nunno seppe porsi con decisione su questa linea, e su di essa si raccolsero tutte le energie libere, nella speranza di poter concorrere a fondare una politica nuova, fatta dalla gente e per la gente.
La vittoria in ballottaggio di Antonio Di Nunno segnò quindi indubbiamente una svolta nella politica irpina. Si trattò di un risultato di pieno e schietto valore politico, che avrebbe potuto e dovuto costituire la pietra angolare di un rapporto nuovo - basato sui valori e sui programmi, e non più sulle ideologie - tra cattolici democratici, laici e forze di sinistra.
Inoltre, va anche detto che Di Nunno aveva rappresentato l'autentica rivelazione delle elezioni. Estraneo agli apparati di partito e alle vecchie clientele politiche, Di Nunno era stato “lanciato” all'ultimo momento e in una situazione di marasma generale, che vedeva la caduta dell'ipotizzato accordo di centro-sinistra a livello regionale, provinciale e comunale, nonché la profonda lacerazione interna del Ppi. La situazione appariva disperata anche ai più ottimisti degli osservatori, e tutte le previsioni davano per scontato il trionfo schiacciante della coalizione di destra, capeggiata per altro da un professionista serio e di valore quale Stefano Sorvino.
Partendo da questo stato di cose, Di Nunno riuscì invece a riequilibrare e alla fine a ribaltare la situazione, dapprima affermandosi al primo turno con un ottimo 26%, poi vincendo in ballottaggio con un netto 53%.
Quali le ragioni del successo? Di Nunno, in effetti, era riuscito a personificare efficacemente la linea dell'accordo politico tra le forze laiche e cattoliche di centro e di sinistra, dandogli una credibilità, una passione e una forza che gli derivavano dalla sua storia e dalla sua stessa personalità umana e politica, tenendo insieme una coalizione animata, oltre che da un programma comune, da uno spirito di solidarietà e di entusiasmo che costituì esso stesso un fattore politico trascinante e decisivo.
Inoltre Di Nunno – quest'uomo schivo, serio e modesto, questo giornalista di razza dall'indipendenza fiera e ombrosa, dalla straordinaria capacità di cogliere l’essenza dei problemi, a cui la sua stessa cristallina coerenza aveva sin ad allora precluso quel ruolo politico che da sempre avrebbe meritato – si era rivelato a sorpresa un grande comunicatore, oltre che un battagliero e sanguigno polemista, riuscendo a trasmettere alla gente con grande e spontanea immediatezza entusiasmo, fiducia, voglia d'impegnarsi. L'opinione pubblica, non più abituata al confronto politico autentico e assuefatta a grigi personaggi d'apparato, reagì quanto mai positivamente al messaggio programmatico di Di Nunno, che la richiamava con forza ai grandi e piccoli problemi di una realtà urbana da riammagliare, da ricostituire, da reinventare, da sottrarre al risucchio del degrado; in una parola, secondo il suo slogan, per «ridare un'anima alla città».
Gli avellinesi, in sostanza, credettero e diedero fiducia a Di Nunno proprio perché ne avevano avvertito l'autenticità, la passione, la tensione morale, l'amore per la città. E fu alla fine proprio il voto d'opinione – ed esclusivamente questo, non quello d'apparato – a decidere della contesa.
Paradossalmente, tuttavia, nello stesso successo di Di Nunno stavano “in nuce” tutti gli elementi che ne avrebbero reso ardua e problematica l’esperienza sindacale. Subìto e non accettato dall’establishement, né tantomeno amato, Di Nunno aveva in effetti la sorte segnata: sopravvivere adottando un ruolo di basso profilo, politico e personale, rassegnandosi ad amministrare per conto terzi, oppure cedere e andarsene, rinunciando al suo programma di rinnovamento. La contraddizione, delineatasi sin dall’inizio (anzi, se si può dire, prima ancora di cominciare), era poi destinata a sempre più aggravarsi nei mesi e negli anni per effetto della caduta delle illusioni del rinnovamento e per il ricompattamento del regime.
Il fallimento delle vecchie formazioni politiche e delle loro classi dirigenti, che era sembrato dischiudere per un momento scenari nuovi e prospettive inattese, non aveva infatti aperto in Irpinia alcuno spazio politico nuovo. Anzi, a partire soprattutto dalle elezioni politiche del ’97, si avviò una progressiva e massiccia operazione consociativistica e trasformistica, finalizzata alla perpetuazione dei vecchi e consolidati equilibri di potere, passando attraverso il sacrificio della linea politica del rinnovamento. L’effimera “stagione dei sindaci”, dei quali Di Nunno era stato tra i protagonisti, stava del resto dappertutto tramontando, nel quadro del ristabilimento, per quanto instabile e precario, come i fatti avrebbero presto dimostrato, del dominio partitico. A sopravvivere sarebbero stati solo quei sindaci – Bassolino a Napoli, De Luca a Salerno – che avevano saputo costituirsi una base autonoma e forte di potere. Non era questo il caso di Di Nunno, la cui opera politico-amministrativa, completamente assorbita dal risanamento della realtà disastrosa di una città devastata dal terremoto e ancor più dalla ricostruzione/distruzione, aveva sempre prescisso da ogni disegno personale.
Tale condizione era inevitabilmente destinata a far esplodere, alla lunga, le contraddizioni del precario equilibrio politico-amministrativo uscito dalle elezioni del ’95. Un ostacolo grave all’operazione di restaurazione era però costituito da Di Nunno, rivelatosi intrattabile e indisponibile ad ogni logica di condizionamento o di recupero. Di qui il progressivo “vuoto” politico creato intorno al sindaco e alla giunta da parte del Ppi, di qui l’escalation delle polemiche, delle punzecchiature e delle provocazioni, sino all’esplodere della crisi finale, resa irrevocabile anche dalla sua irriducibile, ostinata e congenita coerenza, com’era nella natura caratteriale che gli derivava dalla sua eredità atavica.
Puntando l’attenzione su singoli episodi e particolari di quella torbida e ambigua vicenda, matrice prima di tutti i disastri del successivo decennio, si rischia però inevitabilmente di perdere la prospettiva di fondo del problema. La verità effettiva sta, invece, nel fatto che il dissidio sostanziale era nella realtà stessa delle cose, oltre che delle persone, e che il “divorzio” era non solo inevitabile, ma anzi c’è da stupirsi che sia sopraggiunto così tardi. Ad Antonio Di Nunno, caduto sulla breccia della sua intransigente coerenza politica e morale sino a rischiare la vita e a rimetterci irrimediabilmente la salute e la qualità della vita, non sarebbe restato che testimoniare ai cinici della politica, i quali conoscono il prezzo di tutto e il valore di niente, che nella vita di un uomo conta quello che si è, e che non è importante vincere, ma avere ragione.
E questo Tonino, classico ed eroico “profeta disarmato”, che non ha mai ceduto a quello che il grande storico tedesco Gerhard Ritter ha definito in un suo magistrale volume «il volto demoniaco del potere», lo ha con enorme dignità testimoniato sino alla fine, nella lotta decennale che ha combattuto contro il male fisico che alla fine l’ha distrutto, ma non vinto, lasciandolo spiritualmente in piedi.