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    03/07/2024

Avellino nella tragedia del settembre del '43

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Corso Vittorio Emanule dopo i bombardamenti del settembre 1943AVELLINO – In occasione del 73esimo anniversario del 14 settembre 1943 riproponiamo un passo – quello relativo al tragico evento dei bombardamenti sulla città di Avellino – del saggio Lotte politiche in Irpinia, 1943-1946 che l’ex sindaco-giornalista Antonio Di Nunno, scomparso il 3 gennaio dello scorso anno, pubblicò nel 1975 sulla prestigiosa rivista della Camera di Commercio Economia Irpina, anno XVI, n. 4.

*  *  *

L'annunzio dell'armistizio fu salutato in tutta la provincia con manifestazioni di entusiasmo. La fine della guerra, annunciata ad un mese e mezzo dalla caduta del regime fascista, sembrava chiudere definitivamente l'epoca delle privazioni e dei lutti. L'Irpinia aveva pagato il suo tributo di sangue con i caduti: ma ora era viva in tante famiglie la speranza di veder ritornare salvi i propri congiunti. In quelle ore il pensiero cupo del comportamento che avrebbe tenuto il vecchio alleato tedesco interrompeva soltanto la sensazione di gioia che tutti provavano per la fine dell'incubo.

Le scorrerie dei tedeschi, lo sbandamento dell'esercito e di ogni altra autorità, i saccheggi dei depositi militari oramai in balia dei predatori apparivano come l'ultimo prezzo da pagare alla follia della guerra: prezzo non eccessivamente alto rispetto ai sacrifici di altre città e altre province. L'armistizio sanciva, agli occhi cittadini, lo scampato pericolo dei bombardamenti patiti in quegli anni dalle altre città d'Italia. Avellino era considerata zona tranquilla, tanto che da più parti d’Italia parenti o amici di avellinesi vi inviarono familiari per saperli al sicuro.

«Mentre io attraverso Piazza della Libertà, dove la vita si svolge con la consueta placida calma, un fulmineo tremendo crollo come per cannonate, fra un turbinio di proiettili di rottami, scaraventa persone e cose in ogni lato e lancia anche me a terra accecandomi Non uno stridore di sirena, non un rombo di veicoli che ne annunziasse l'avanzata, quindi non penso a bombe scagliate dall’alto; ho invece la sensazione – la mente in quell'istante era incapace di discernere – che le forze americane, che già si sapevano a Salerno, irrompessero furibonde e fulminanti da via Due Principati nella nostra maggiore piazza».

Con queste parole Vincenzo Cannaviello ricorda nel suo libro «Avellino e l'Irpinia nella tragedia del 1943-44» i drammatici momenti della mattina di quel terribile martedì. Erano le undici meno cinque del quattordici settembre. Con quel tonfo lugubre – procurato dalle bombe sganciate sulla città da 36 fortezze volanti durante la prima delle otto incursioni aeree di quel giorno – si annunciava per la popolazione del capoluogo irpino l'inizio di una vita di stenti, di dolori, di privazioni, di umiliazioni. I bombardamenti continueranno il giorno successivo e il 17, il 20 ed il 21, ad opera di caccia-bombardieri  «Lightnings» e nei giorni successivi ad opera dei cannoni. L'incubo svanì con la fine di un violento temporale scatenatosi sulla città e i dintorni la  notte del 29 settembre. Con il sereno ed il silenzio giunsero anche le truppe alleate che entrarono in Avellino all'alba di venerdì primo ottobre.

Più di ogni altra cosa, quei terribili diciassette giorni avevano lasciato sul volto della città e dei cittadini un segno indimenticabile: oltre millecinquecento i morti, centinaia i feriti, centinaia di famiglie colpite dal lutto, ed in tutta la città il fetore dei cadaveri che imputridivano sotto le macerie, lo sgomento di chi aveva perduto ogni cosa, l'incredulità di chi aveva veramente creduto che ad Avellino non sarebbe accaduto nulla. E poi i saccheggi nella città abbandonata dagli abitanti, le scene di fuga, di viltà, di abbandono da parte di chi avrebbe dovuto prendere delle decisioni. Pagine raccapriccianti di storia che bollarono, come prima non era successo, il regime fascista che quella guerra aveva voluto e la classe dirigente che aveva localmente espressa.

L'antifascismo trovò, dopo quelle tragiche giornate, motivo di ripresa.  Anche ad Avellino furono le giornate successive alla fine del regime a far generalizzare il processo dl riconsiderazione dei mali subiti. L'incredibile vicenda dell'abbandono della città da parte delle autorità (il prefetto Zanframundo, il comandante dei carabinieri Martino, il questore Vignale, e persino il direttore dell'ospedale civile, dott. Paolucci) – mentre i cadaveri marcivano, i vivi morivano sepolti dalle macerie, i feriti morivano per la mancanza di medici, i malati si lanciavano dai balconi dell'ospedale di Piazza Maggiore giù sul selciato per non soffrire, le case venivano saccheggiate da cittadini disonesti appartenenti ad ogni ceto – scatenerà un'ondata di polemiche e di accuse che non produrranno alcun intervento. L'indignazione della popolazione aumenterà non appena più preciso si sarà fatto il quadro del danno reale che la provincia avrà subito in quel periodo: danneggiati o distrutti 830 chilometri di strade, 151 ponti sulle sole strade statali, 212 tra acquedotti, fognature, ospedali e mattatoi, 190 tra chiese ed istituti di beneficenza, 107 edifici pubblici, 64 edifici scolastici, 35 opere idrauliche, 12 cimiteri, due interi rioni ad Ariano Irpino e due a Solofra, un rione a Pietrastornina, 3650 abitazioni per 23.475 vani, dei quali 16.578 –  quasi la metà delle abitazioni – nella sola Avellino. Incalcolabili i danni sul piano delle privazioni che tutti i cittadini subirono per la mancanza di generi alimentari, per la borsa nera, per 11 freddo, per le umiliazioni continue che venivano dal comportamento delle truppe di occupazione (americani, inglesi, scozzesi, marocchini. senegalesi ed anche indiani). Quasi undici mesi durò in provincia l'amministrazione alleata: furono undici mesi terribili che sconvolsero, anche sul piano morale, la vita della città. L'invadenza degli invasori, lo stato di bisogno degli occupati e la mancanza di mezzi di sussistenza provocarono il nascere ed il fiorire di speculazioni di ogni genere e della prostituzione. Il vescovo di Avellino, Mons. Bentivoglio, che era stata l'unica autorità a non abbandonare la città durante il bombardamento, fu a tal punto colpito dallo stato di degenerazione in cui versava la città  che si vide costretto a rivolgere un pubblico appello – il primo gennaio '44 – contro tanti cittadini onesti divenuti ladri in occasione dei bombardamenti e contro tante donne che avevano trovato nella prostituzione il mezzo per sostenere le proprie famiglie.

La fame ed il freddo passarono come un tornado sui cittadini: nel giro di pochi mesi erano scomparse abitudini e tradizioni, il capoluogo sembrava vivere esclusivamente in funzione delle truppe di occupazione, la stessa toponomastica cittadina era stata sconvolta, venendo le strade chiamate con nomi inglesi. Nascevano nuovi avvilenti mestieri, e nessuno aveva da ridire se per «King street» (come fu ribattezzato dagli alleati il Corso Vittorio Emanuele) militari canadesi ubriachi investivano, uccidendoli, i malcapitati passanti.

La partenza degli amministratori militari da Avellino avvenne verso la metà di agosto del '44. La bandiera italiana – issata «per benevola concessione» dell'allora comandante alleato, maggiore Sisson, sul balcone del palazzo della prefettura tra i colori statunitensi ed inglesi nel pomeriggio del 23 ottobre '43 – rimase a simboleggiare il ritorno della pro-vincia di Avellino sotto la normale di-pendenza del governo italiano.

Sullo stesso argomento segnaliamo altri due articoli di Di Nunno, La lunga notte di Avellino nel settembre del 1943, apparso sul nostro giornale il 14 settembre del 2012, e Una foto per ricordare, pubblicato il 14 settembre del 2013:

http://giornalelirpinia.it/index.php/component/content/article/3-cultura/1387-la-lunga-notte-di-avellino-nel-settembre-del-1943

http://giornalelirpinia.it/index.php/component/content/article/3-cultura/4456-14-settembre-1943-una-foto-per-ricordare

 

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