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    03/07/2024

Quel campanile sempre rifatto

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La torre dell'orologio (foto di Carmine Bellabona)AVELLINO - Oggi, 23 novembre 2015, ricorre il 35° anniversario del terremoto del 1980 che colpì l'Irpinia e la Basilicata causando circa 3000 morti. Molte le manifestazioni in programma in tutta la provincia per ricordare le vittime di quel tragico evento. Noi riproponiamo ai lettori l'articolo che Antonio Di Nunno, il sindaco-giornalista scomparso il 3 gennaio di quest'anno, scrisse sul nostro giornale il 22 novembre di tre anni fa.

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Sono passati trentadue anni, ma sembrano molti, molti di più. Un’epoca. Perché da allora è cambiato tutto. Dapprima, naturalmente, il panorama di macerie, anche morale, che avemmo modo di osservare dall’alba del giorno dopo fino a ricostruzione compiuta. Poi il sentimento del Paese che cambiò. A causa di errori, sprechi (e non solo), abusi amministrativi compiuti da personale politico che, dimostrandosi di livello inferiore a quello attribuitogli fino ad allora, favorì lo sconfinamento della politica negli affari. Quel sentimento passò dalla più grande manifestazione di solidarietà che l’Italia ricordi ad un’avversione profonda verso i “terremotati” e poi verso i meridionali in genere.

Certo, l’avversione per i “terroni” ha radici antiche, ma per gli anni della Repubblica, il dopo terremoto segnò una svolta, il discrimine che contraddistinse la virulenta spaccatura in due (sociale e, soprattutto, morale) del Paese. Fu anche la notevole disponibilità di mezzi messi a disposizione dell’intervento sull’Appennino meridionale martoriato – dieci anni dopo già cinquantamila miliardi di lire – a contribuire a creare quel clima. Non indusse a valutazioni diverse qualche considerazione su quelli che erano stati i fallimenti (e la mancanza di veri aiuti) in occasione del terremoto del Belice (1968), o sulla lentezza degli interventi dopo il sisma nell’Arianese (1962) dove c’erano ancora molti segni di quella sconfitta in quella ferale sera del 23 novembre 1980.

E neppure la considerazione veramente elementare che pur con severe prove alle spalle (Ischia 1883, Messina e Reggio Calabria 1908, Vulture-Irpinia-Basilicata 1930, Friuli 1976) lo Stato italiano fece arrivare Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Teora, Balvano ed almeno altri trecento Comuni, a dir poco, a quell’appuntamento senza vere leggi sull’edilizia antisismica, senza un servizio di Protezione civile e senza studi decenti sulla pericolosità di alcuni territori compresi tra caldere fumanti, vulcani spenti, altri in attesa del botto, isole vulcaniche, crateri nel profondo del mare. Uno di questi territori è quello che comprende la metropoli Napoli, il suo incombente Vesuvio, i campi ardenti (Flegrei), Pozzuoli ed il suo bradisismo. E proprio Napoli finì coinvolta la sera del 23 novembre: una delle tre torri costruite negli anni Cinquanta per dare alloggi ai senza tetto crollò in via Stadera (zona Poggioreale).

Ma soprattutto fu minato il suo centro storico, uno dei più grandi d’Europa. Il dopoterremoto a Napoli pose problemi completamente diversi da quelli che all’indomani del sisma ponevano i paesi dell’Appennino. Per dare una risposta al popolo dei bassi, per avviare anche un riequilibrio urbanistico della città degli anni Cinquanta programmata dagli interessi dei costruttori e da una politica di pessimo livello fu deciso un intervento straordinario per Napoli: oltre ventimila miliardi di lire per costruire alloggi, anche fuori città, per gli abitanti intrappolati dai tubi innocenti nei quartieri spagnoli e realizzare infrastrutture, risanare periferie allora ancora chiamate con il nome delle più importanti masserie dell’ex area agricola che allora circondava la città.

Quella decisione per Napoli (dove il commissario straordinario Zamberletti fissò il suo quartier generale) generò reazioni politiche, terroristiche e giudiziarie. Alla diceria irpina e potentina che il terremoto (i soldi per la ricostruzione) era stato rubato dalla metropoli partenopea diede voce forte l’allora segretario nazionale della Democrazia cristiana, l’irpino Ciriaco De Mita, che contestò il rapporto sbagliato tra fondi erogati a Napoli (troppi) e quelli (pochi) agli altri Comuni purtroppo “diventati” oltre seicento dopo una sorta di arrembaggio che partiti, Regioni, enti locali alimentarono visto che quella della ricostruzione fu ritenuta da chi era in buona fede una buona occasione per migliorare la qualità di vita nei paesi da ricostruire. Che ci fosse chi pensasse ad altro non era ipotesi remota. Ma i guasti, l’alterazione dei rapporti tra amministratori locali e imprese, tra politici e faccendieri nacquero da quella disponibilità finanziaria.

Ma contro quel tipo di intervento a Napoli si scagliò anche il terrorismo – che a Napoli aveva già fatto qualche significativa vittima – che riteneva il trasferimento fuori dal centro storico del popolo dei bassi una “deportazione”. Il rapimento dell’assessore ai Lavori pubblici della Regione Campania (già presidente), Ciro Cirillo, segnò un punto di svolta della questione ricostruzione intanto diventata questione morale.

Contò molto, in proposito, l’assunzione in quel tempo della presidenza del Consiglio dei ministri da parte di Ciriaco De Mita. Giornali e televisioni, salvo chiedere scusa successivamente – dopo un viaggio tra i paesi e tanto di incontro pubblico tra direttori di grandi giornali nazionali e politici locali – quando scoprirono che l’Irpinia ricostruita “sembra una piccola Svizzera”. Ma all’epoca dell’offensiva avallarono l’equazione Irpinia uguale corruzione. Contribuì a far passare questa visione della ricostruzione una guerra interna alla Democrazia cristiana campana e non solo: lo scontro aperto tra la Dc retrograda ed in ritardo su tutto dei Gava e quella della sinistra Dc che dall’Irpinia faceva partire, allora, l’idea del Patto costituzionale, la visione di una sinistra democristiana spinta oltre i canoni ufficiali prima da Fiorentino Sullo – l’uomo che voleva salvare il territorio italiano dalla speculazione edilizia… –  e da Ciriaco De Mita che, allora, selezionava un gruppo dirigente di notevole profilo. Poi c’era il forte contrasto con il partito comunista, partito con il quale in Campania aveva di fatto raggiunto, sulla gestione della ricostruzione, un’intesa.

Oltre il commissario Zamberletti (figura mutuata dall’azione della marina militare a favore del popolo che fuggiva con le barche nel mare del Sud-Est asiatico e poi replicata per l’emergenza post-terremoto in Friuli) il dopo terremoto fu guidato da due subcommissari: il presidente della giunta regionale (naturalmente Dc) ed il sindaco di Napoli (eccezionalmente comunista, l’autorevole Maurizio Valenzi).

Anche sulla notevole spesa per la ricostruzione a Napoli ci furono indagini e scandali. Ma mentre sull’amministrazione del comunista Valenzi non si trovò nulla da ridire e per questo, anzi, il livello morale della giunta Pci e dell’ex senatore che la guidava si alzò notevolmente mentre precipitò definitivamente quello della Dc soprattutto a partire dal rapimento Cirillo ed al pagamento, in modo goffo e rocambolesco, di un riscatto patteggiato dalla potente corrente dorotea a Napoli rappresentata e guidata da Antonio Gava. In tanti, dentro il partito e fuori, trovarono indecente ed irriguardoso verso la storia della Democrazia cristiana quella trattativa per Cirillo che invece era stata negata nel 1978 per la vita di Aldo Moro. In sostanza la Campania “meridonalizzava”, quindi consentiva, la trattativa che a Roma il monito di Berlinguer aveva impedito.

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Da noi, intendo in Irpinia, i fatti hanno preso un andamento altalenante e per tanti aspetti imprevedibile. Ad di là dello scontro De Mita-resto del mondo rimane il dato di una ricostruzione completata pur in mancanza di tutti i fondi promessi. Anni dopo l’ex deputato del Pci Stefano Vetrano, responsabile in Campania della Lega delle autonomie locali, ricordò, durante un incontro con la commissione Lavori pubblici della Camera, che in aula a Montecitorio il ministro dei Lavori pubblici Di Pietro aveva quantificato in cinquemila miliardi di lire il completamento della ricostruzione delle case (la ricostruzione era stata limitata soltanto a case ed urbanizzazioni secondarie dalla legge che corresse la famosa 219 che garantiva ricostruzione e sviluppo, legge proposta dal senatore socialista avellinese Modestino Acone).

A Teora hanno aperto gli ultimi importanti cantieri tre anni fa. Un secondo Belice, insomma, non c’è stato. Anzi c’è stata una lotta sbagliata tra Comuni e Soprintendenza ai Beni culturali. Soprintendenza che prima in Irpinia di fatto non c’era mai stata. Fatto, questo, che ha originato uno scontro che però alla fine ha determinato sul territorio, e soprattutto in Avellino, una consapevolezza che c’era da noi più di qualcosa da difendere e tutelare.

Tanti giovani che oggi si battono per Abellinum, per il centro storico di Nusco o di Ariano, per le Dogane di Avellino e di Atripalda, per i castelli di Bisaccia e di Sant’Angelo dei Lombardi, per la Mefite di Rocca San Felice, per le cattedrali dei nostri paesi (le nostre vere radici), le nostre piazze, per Aeclanum e l’anfiteatro di Avella: ebbene costoro devono essere riconoscenti verso quel periodo, verso quei contrasti.

È il sonno che ci ha tenuti intorpiditi per una vita che è stato sconfitto. Su un altro piano invece usciamo, per ora, sconfitti.

Quando giustamente quel gruppo dirigente progressista, poi squagliatosi e, a posteriori, potremmo definire “doroteizzato”, pose lucidamente il problema dell’abbinamento della ricostruzione allo sviluppo, si pensò all’industria. Qualche voce isolata – Manlio Rossi Doria – indicò anche altre strade. Ma non si pensò mai davvero all’Irpinia come un grande parco, quindi turismo, ambiente, risorse idriche da valorizzare, ed agricoltura; un’agricoltura che pure di lì a poco avrebbe consacrato il settore vitivinicolo con etichette affermatesi sul piano internazionale. Così dopo il restauro di tanti edifici storici ed opere d’arte (un grande laboratorio di restauro fu allestito nell’abbazia del Goleto), ci siamo accorti di avere un patrimonio artistico, storico ed ambientale sicuramente in grado di attirare turisti.

Ma forse è in questi nostri giorni che stiamo assumendo questa consapevolezza. C’è però da dire che sul piano di industrializzazione che ha segnato la bocciatura prima ed il disfacimento poi del gruppo dirigente Dc egemone è stato poco spiegata la motivazione principale di quel fallimento. E cioè la “pesca” nei finanziamenti di tanti “imprenditori” quasi tutti non irpini che, però, non hanno mantenuto la produzione in loco. Le eccezioni, lodevoli, si contano con le dita di una sola mano. Non rispondente al vero, poi, quanto attribuito dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Oscar Luigi Scalfaro ai politici locali di aver fatto spendere molto allo Stato per le troppe aree industriali (e le costose infrastrutture).

In realtà De Mita, che quel gruppo dirigente guidava, nel corso di un convegno che si svolse presso la biblioteca provinciale di Avellino pochi mesi dopo il sisma disse due cose molto chiare e nette: 1°, per me il terremoto è avvenuto soprattutto in Alta Irpinia, in parte nella Basilicata, in una ristretta area del Salernitano, più particolari episodi nel centro storico di Avellino e a Napoli; 2°, per me le aree industriali devono essere poche: due in Irpinia, una in provincia di Salerno, una in Basilicata.

Il Parlamento, su pressione di tutti i politici e gli enti locali, stabilì che l’area del disastro era limitata attorno all’epicentro (il “cratere” come lo definì Giuseppe Zamberletti) ed un’area danneggiata comprendente oltre seicento Comuni campani, lucani, pugliesi. Per le aree industriali (ben 22) il Consiglio regionale della Campania raggiunse un accordo che vide un’intesa tra la Dc di Avellino e quella salernitana, gli influenti socialisti salernitani, con tanto di avallo del Pci nella persona dell’allora presidente dell’assemblea regionale, Gomez D’Ayala.

Questi fatti, le scelte che produssero, le polemiche e le accuse che ne nacquero portarono alla fine del predominio Dc in Irpinia; e l’Irpinia – con De Mita capo del governo portato davanti al tribunale dei ministri – l’Unità lo accusò di aver goduto, quale azionista della Banca popolare dell’Irpinia, del lucro ricavato da quella banca dal deposito presso di essa dei fondi per la ricostruzione. De Mita fu assolto, ma da allora iniziò la sua fase discendente. Si instaurò in Campania e da allora vive della rendita elettorale degli anni d’oro. Singolare quanto incomprensibile una sua considerazione anni dopo quegli eventi: «Pensavo che di fronte a tanti attacchi la provincia si sarebbe ribellata invece…».

Anni dopo, ad ogni anniversario, telecamere e polemiche, giornalisti e verità, giornalisti e luoghi comuni. Nel corso di una cerimonia che si svolse in ricordo della tragedia a Lioni, presente anche il presidente della giunta regionale Bassolino,  una forte contromanifestazione creò polemiche ed imbarazzo. Quando da sindaco mi trovai a vivere uno dei tanti anniversari proposi a Bassolino di venire ad Avellino nel cantiere della Città ospedaliera. Gli spiegai che volevo far capire agli avellinesi (e non solo) che con i fondi per la ricostruzione era stata finanziata anche la costruzione di un grande ospedale (il primo lotto di competenza del Comune). Un modo diverso di celebrare l’anniversario, l’occasione per parlare del secondo finanziamento per il completamento della Città ospedaliera. In quella occasione parlammo anche di altre iniziative possibili (il progetto Pica camminava già sulle sue gambe, come la metropolitana leggera, ma erano altri i progetti da mettere in campo). L’estate successiva, invece, la nostra esperienza alla guida della città era già morente.

Quando faccio queste riflessioni penso a quanto oggi si dice e si commenta anche sul risultato “estetico” della ricostruzione. Quando si parla di Avellino bisognerebbe far notare a chi guarda e giudica che forse è nel centro antico, sulla collina della Terra, la spiegazione di tante cose. Quel campanile del Duomo sempre rifatto, con quel solido basamento di blocchi che vengono da Abellinum, rappresenta il tentativo della comunità di ricominciare sempre daccapo dopo terremoti e distruzioni. Ricominciare e ricominciare ancora. Questo è nel dna della città. Che ha le sue stimmate su quella collina non sulle strade dell’edilizia dell’ultimo mezzo secolo. Partire da Abellinum significa scavare in qualche millennio. Chi è davvero colto lo capisce e sa farlo.

Il resto, polemiche estetiche azzerabili con una rottamazione che i nostri tempi consentono, sempre soltanto uno schiaffo come quello che ancora arriva (e fa male) da chi confronta il nostro fare ed il modo di reagire di altre popolazioni colpite da calamità. Quando sento dire (anche su canali Tv nazionali) che “noi non siamo stati con le mani in mano ad attendere, le aziende le abbiamo subito rimesse in piedi” mi viene da pensare: ad avercele le aziende. Noi eravamo, e siamo, soprattutto una comunità di contadini e di commercianti.

I contadini hanno ricominciato da soli (i soldi per rifare le case e le stalle sono arrivati dopo) come i commercianti. Ma c’è chi ricorda come sono diventati negozi e bar capanne e box poggiati sui marciapiedi del Corso o di Piazza Libertà? I palazzi: i primi rientri tra le mura sono venuti quattro, cinque anni dopo. Oggi sembra tutto dimenticato e per tanti non siamo altro che un popolo di mantenuti. Le opere da noi realizzate sarebbero tutte sbagliate. Mica vero. Errori, anche grandi, ci sono stati. Ma quel mondo colpito, quegli inverni, chi li ricorda più? E chi ricorda che Il Mattino, il giornale che Roberto Ciuni mise a guardia della tragedia (ricordate quella prima pagina con il Fate presto diventata un’opera d’arte di Andy Wharol?) cominciò da un certo giorno in poi a dimenticarsi dell’anniversario?

Tutti, naturalmente, abbiamo un nostro ricordo del 23 novembre, di quella sera e di quella notte, ed ancora di più del mattino successivo, quando si ebbe la reale percezione della portata delle distruzioni. Ogni ricordo un’immagine: davanti ai sali e tabacchi Grammatica di via Mancini un’auto bianca con dentro un uomo con il cranio fracassato, con lo sportello aperto e la luce accesa all’interno perché evidentemente il conducente, un operatore economico di Serino, aveva tentato di fuggire dopo la prima caduta di blocchi da palazzo Galasso. L’indomani, per il Corso, un amico mi dice di guardare verso la torre dell’Orologio: era capitozzata. Le ferita più bruciante per la città: l’annuncio di quanto accaduto nel centro antico, in Piazza del Popolo, a Sant’Antonio abate. La sera prima, intorno alla mezzanotte, la telefonata alla Rai, Rai che attraverso la radio continuava a parlare di tragedia a Baiano, poi, ogni tanto, un altro paese: Lioni, Sant’Angelo, Conza, Laviano, poi Napoli, via Stadera. Con la scomparsa della nebbia, l’indomani, la visione del disastro.

A Napoli alla Rai (che quella notte mandò Luigi Necco fino al Moscati in viale Italia) ci fu una rivoluzione copernicana: la Rai scopriva la Campania interna. Il capo della redazione, Baldo Fiorentino, al telefono mi disse: «Non muoverti da Avellino. Da domani avrai ogni mattina una troupe a disposizione. Mi devi garantire ogni giorno un servizio». E così fu. E poi venne il decennale con lo speciale Tg1 per il quale proposi il titolo Cinquantamila miliardi dopo, il ventennale per il Tg Campania e tanti altri anniversari e servizi anche in forte polemica con la redazione. Come quando – era il terzo anniversario – il montatore del servizio, l’ottimo e sempre caro Enzo Aprea, anticipò l’inserimento delle prime note di chitarra che introducono quella bella poesia che è la canzone L’anno che verrà sotto gli ultimi fotogrammi del cimitero di Sant’Angelo dei Lombardi: tre secondi per poi voltare pagina e passare a Lioni. Ma tanto bastò a fare arrabbiare più d’uno: “Non si mette la musica sotto le immagini di un cimitero”. In realtà era la canzone di Dalla, con le sue parole: “Ma qualcosa ancora qui non va. Ma la televisione ha detto che il nuovo anno…”. Le parole, sotto le immagini di un categorico manifesto del Pci appiccicato su un muro di Calitri dal titolo L’Irpinia non dimentica mi fecero passare per un inguaribile rivoluzionario.

Quante volte ho rivisto quel servizio e sentito la canzone di Dalla che lo “copriva” per una buona metà. “Ma qualcosa ancora qui non va…”.

 

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